La pandemia ha cambiato l’utilizzo dello smartworking, che prima era uno strumento poco conosciuto: ora i sindacati guardano al futuro I primi accordi sono arrivati prima dello scoppio della pandemia, quando ancora i sindacati dovevano faticare per convincere le aziende a sperimentare l’introduzione dello smart working come strumento di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. L’emergenza sanitaria, costringendo le persone a lavorare da casa, ha innescato un grande esperimento di massa, che ha cambiato il modo stesso di concepire la prestazione lavorativa, ma anche l’approccio delle imprese al lavoro da remoto, considerato in molti caso un’opportunità. “È diventato un modo per attrarre i giovani e non farsi scappare personale di talento. Questa è veramente una novità“, spiega il segretario della Fiom di Bologna, Michele Bulgarelli. Insomma, il messaggio è “lavora con noi e potrai farlo da dove preferisci”. Certo, siamo ancora nell’ambito dell’avanguardia, ma qualcosa in questi due anni è cambiato, tanto che i sindacati sentono il bisogno di fare il punto e di mettere dei paletti, temendo fughe in avanti che sfuggano alla contrattazione e creino disparità tra lavoratori.
“IL RISCHIO È CHE VENGA TRATTATO COME UN BENEFIT“
Intanto, il governo ha prorogato la possibilità di ricorrere allo smart working semplificato fino alla fine di giugno, anche se proprio in questi giorni le aziende stanno richiamando gradualmente i dipendenti al lavoro in presenza, come in Gd, dove dal 4 aprile è previsto il rientro in ufficio di 190 persone. “A oggi abbiamo sottoscritto 37 accordi di smart work in 25 aziende, in alcune abbiamo firmato più di un accordo. Si tratta di imprese che impiegano un totale di 11.245 addetti, con 7.508 impiegati. I primi accordi li avevamo fatti già prima della pandemia nelle aziende del gruppo Audio, Ducati e Lamborghini, in Gd e in Bonfiglioli. Molte realtà erano resistenti a sperimentare questo strumento, adesso si sono convinte“, fa il punto Bulgarelli, che vede all’orizzonte alcuni rischi, “unilateralismo e disintermediazione”, innanzitutto. “Il timore è che alcune aziende decidano di proporre lo smart working non come uno strumento per organizzare il lavoro, ma come benefit per alcuni lavoratori. “Se c’è un diritto deve, essere esigibile senza rinunciare ad altri diritti, come i permessi o i buoni pasto, o al salario. Anche perché la legge prevede parità di trattamento”, avverte. “Questa sfida si affronta con lo strumento maestro della contrattazione”, è il punto dei sindacati dei metalmeccanici. “La pandemia ha cambiato l’approccio a questo strumento. Tra i lavoratori il gradimento è all’80%, anche se emerge qualche ombra legata alla formazione e al diritto alla disconnessione. La maggior parte dei lavoratori preferisce un regime misto, in presenza e da remoto. Sono contenti perché questo strumento permette di poter conciliare meglio la vita lavorativa con quella familiare”, puntualizza il segretario della Fim-Cisl, Massimo Mazzeo.
“VERO BANCO DI PROVA ALLA FINE DI GIUGNO”
“Prima della pandemia c’era ben poco. A livello nazionale c’erano 600.000 lavoratori coinvolti da processi di riorganizzazione attraverso lo smart working, dopo sono diventati quattro milioni. La contrattazione ha permesso di normare questo strumento che riguarda una fetta marginale della popolazione al lavoro, in particolare nel settore metalmeccanico. Adesso non dobbiamo lasciare questo strumento a se stesso. Se è diritto lo è sempre e per tutti. L’idea è che da Bologna possa nascere un dibattito. Oggi viviamo alla giornata per le conseguenze della crisi energetica e della guerra, il rischio è che lo smart working venga utilizzato come un modo per gestire le emergenze“, avverte il leader della Uilm-Uil di Bologna, Paolo Da Lan. In ogni caso, con l’allentamento delle misure di contenimento della pandemia, si assiste ai primi segnali di graduale rientro in presenza. “Il vero banco di prova si avrà al termine del periodo di emergenza, allora potremo misurare sul campo gli accordi e vedere se le aziende fanno sul serio“, osserva Mazzeo. Soprattutto l’attenzione sarà alta perché non si creino spaccature nei luoghi di lavoro, con una gestione unilaterale di questi strumento, che già taglia fuori gran parte del personale in produzione, cghe non può lavorare da casa. “Il nostri compito è unificare il lavoro. L’attenzione conciliazione deve riguardare anche la produzione”, conclude Bulgarelli.
fonte agenzia dire.it