L’intervista a Paolo Cevoli, dalla pensione Cinzia a Zelig. I dati del movimento turistico 2022, l’identikit del turista tipo e l’indagine Demoskopika.
La vacanza in Emilia-Romagna? Tutta una questione di cuore.
Perché, come dice Paolo Cevoli, vanno bene i luoghi, le strutture, l’offerta, ma quello che davvero fa la differenza ancora oggi è il ‘fattore umano’ e noi qui in Emilia-Romagna ne abbiamo per fortuna ancora tanto.
Inclusione, ospitalità e cucina sono gli ingredienti che valgono il viaggio e che ci fanno dire alla fine: “Come sono stato bene lì non sono mai stato in nessun altro posto”.
E che poi ci fanno ritornare, anno dopo anno.
Lo racconta il comico riccionese nell’intervista all’interno del podcast “Ti racconto l’Emilia-Romagna. Com’eravamo e come siamo – l’estate delle vacanze” e lo dicono i numeri: i dati del 2022 riportati nell’infografica sui movimenti turistici e l’indagine Demoskopika realizzata per la Regione sempre lo scorso anno.
Cevoli e l’industria delle vacanze, un rapporto importante?
“Sono nato in pieno baby boom e in pieno boom turistico. Si può dire che sono scoppiato tutto in una volta. Ho mosso i primi passi in un luogo di ospitalità, un luogo pubblico. E già da subito sono stato ‘segnato’ dalla vocazione all’ospitalità, un elemento così diffuso nella nostra terra. Siamo noti in tutto il mondo per la giovialità, la voglia di godersi la vita e di goderla in maniera partecipata. Per noi le cose belle vanno condivise e messe a disposizione di tutti”.
Il luogo pubblico di cui parla Paolo Cevoli è la pensione Cinzia dei suoi genitori. Una struttura zero stelle, come ama definirla il comico, perché allora la classificazione stellata ancora non esisteva.
“Ospitavamo un’ottantina di clienti con dodici camere ufficiali. La gente era dappertutto. Mio babbo metteva i turisti dove poteva, dalla mansarda alle ‘dependance’, gli appartamenti che i privati mettevano a disposizione. Eravamo sempre in overbooking”.
Com’eravate organizzati?
“La mamma stava in cucina, noi ragazzi servivamo a tavola. Mio babbo stava in sala e faceva questa cosa tipica romagnola che ho imparato da lui: cominciava cento discorsi in una volta senza finirne uno, saltellando da un tavolo all’altro. Come un torrente in piena. Parlava tedesco e italiano. A volte si rivolgeva a noi in tedesco: ‘Babbo siamo i tuoi figli!’, gli ricordavamo”.
Ospitalità e buona cucina: erano questi gli ingredienti della pensione Cinzia?
“Mio babbo e mia mamma rappresentavano i due pilastri del turismo romagnolo e devo dire che ancora oggi è così. Il mangiare era un modo per sorprendere i clienti. Ai tedeschi piaceva molto la cipolla e mio babbo passava sempre con una boule che conquistava tutti, anche gli italiani. E alla fine c’era un gas nella sala che se usavi un accendino scoppiava tutto”.
E per promuovere la vostra pensione come facevate?
“Il marketing allora non c’era. C’era il dépliant e soprattutto il passa parola. In generale penso non ci sia pubblicità migliore, quella che ti fa dire: come sono stato bene lì, non sono mai stato da nessun’altra parte”.
Che tipo di turisti ospitavate?
“A giugno e settembre soprattutto tedeschi, della Baviera e di Düsseldorf, a luglio e agosto era la volta degli italiani, tantissimi dall’Emilia e dalla Lombardia, qualcuno da Roma”.
Mare, spiaggia e cibo. Era questa la vacanza preferita dagli italiani?
“Non solo. L’entroterra ha sempre dato grandi soddisfazioni. Ai turisti piacevano le gite sulle colline, nelle città d’arte, anche se allora non c’erano le proposte che ci sono ora, pensa solo ai bike hotel”.
Quanto tempo hai lavorato coi tuoi genitori?
“Circa dodici anni fino alla laurea in Giurisprudenza. La mia giornata era così: andavo in spiaggia quando finivano le colazioni, nuotavo fino alla boa e ritorno, mi asciugavo e tornavo a lavorare. Con i clienti si stabiliva un contatto forte che durava nel tempo. Ricordo che mia mamma, di nascosto, regalava i panini a quelli che avevano pochi soldi per stare in ferie”.
Negli anni ‘80 è arrivato il momento glamour quello del divertimentificio
“Sì, l’esplosione della disco, La collina dei divertimenti, l’Acquafan, Bandiera gialla, è la Romagna che si evolve. Sono dei cicli, adesso, per esempio, dopo il Covid potrebbe essere l’occasione per fare un altro boom del turismo. Staremo a vedere”.
Poi la pensione Cinzia ha chiuso i battenti. Cosa ti porti ancora dietro di quegli anni e come sei arrivato al cabaret?
“Mio babbo è stato il mio coach. Da lui ho imparato l’arte dell’entertainment. Poi, appena laureato, la famiglia Arpesella cercava un ragazzo per aprire la startup di un locale e mi mandò negli Usa per imparare a fare un fast-food all’italiana. Avevo 25 anni, per me che venivo dalla pensione Cinzia, lavorare per il gruppo del Grand Hotel era un onore: come se fossi stato sparato su un razzo. Quando la catena è stata venduta mi sono messo in proprio per alcuni anni e alla fine, inaspettatamente è arrivato Zelig. Ho debuttato nello spettacolo di Bisio a 44 anni e ho iniziato così la mia nuova attività. Alla fine, andare sul palco è un po’ come stare nella sala della pensione Cinzia”.
Qual era la vostra filosofia?
“Quando sono contenti i clienti siam contenti anche noi, diceva mio babbo. Frase che illumina ancora oggi la mia giornata. La mia felicità è riflessa, non dipende da me. La cosa bella è dare non ricevere, se dai te stesso ricevi tantissimo”.
È questo lo spirito delle Vie dell’ospitalità sono infinite, la serie-web che hai realizzato per la Regione?
“Sì, un focus che si concentra su un fatto: tutti possono venire da noi, in Emilia-Romagna, nessuno viene mai escluso. E anche ‘vie’ non è un fatto statico ma dà l’idea del cammino. Siamo rimasti tradizionali ma ci siamo evoluti e abbiamo le risorse umane per farlo. Non dobbiamo perdere questo dono che abbiamo ricevuto. Abbiamo il dovere di continuare a svilupparlo. È come se una pianta avesse frutti nuovi”.
E oggi cos’è cambiato?
È cambiata la richiesta. Adesso ci vuole l’aria condizionata, il wifi. Bisogna adeguare le strutture per restare al passo, ma non basta quello: il cuore umano è sempre da recuperare. Perché noi, non dobbiamo mai dimenticarlo, siamo famosi per quello, il fattore umano.