Succede anche oggi. Finita l’ultima goccia di profumo, la boccetta resta vuota ma non riusciamo a più separarcene: troppo bella per buttarla via! Figurarsi se non accadeva ai tempi antichi, quando gli oggetti che contenevano unguenti e olii odorosi non venivano prodotti in serie, ma erano frutto sapiente delle mani di un artigiano. Come le mani che hanno dato forma al balsamario ritrovato nella necropoli romana di Voghenza, ora conservato nel Museo civico di Belriguardo a Voghiera, là dove sorgeva una delle meravigliose delizie estensi della pianura ferrarese.
Il manufatto risale al secondo secolo dopo Cristo e ha un valore straordinario, sia per la tecnica di lavorazione (da un unico blocco di minerale è stato ricavato un portaprofumi di spessore sottilissimo), sia per la provenienza della materia prima, una varietà rara di quarzo calcedonio, detta “sardonice” o “sarda”. Il nome, secondo Plinio il Vecchio, deriverebbe dalla città di Sardi, in Lidia (un’antica regione della Turchia asiatica), ma forse la radice vera è nella lingua persiana, dove la parola “sered” indica una tinta particolare, tra il rosso e il giallo.
In effetti la caratteristica più evidente di questo quarzo è la striatura multicolore creata dall’“intrusione” di sali e altri minerali nel corso della sua lentissima genesi, una peculiarità che nel tempo ne ha fatto la pietra dura preferita per la realizzazione dei cammei. Per i Romani, poi, aveva anche forti proprietà magiche: assicurava salute, proteggeva dagli inganni, suscitava l’attrazione amorosa e portava ricchezza.
Insieme a monete, anfore, lucerne, brocche in vetro e monili in ambra, questo balsamario proviene da una delle sepolture lasciate dietro di sé da una piccola comunità di età imperiale, che, in un territorio dominato da foreste, paludi e lagune, era impegnata ogni giorno a coltivare la terra strappata alle acque, ad allevare pesci e bestiame, e a ricavare legna per le fornaci dove si cuoceva l’argilla estratta sulle sponde dei fiumi.
Tra quelle genti, come raccontano le lapidi della necropoli, c’erano commercianti, ex militari e pubblici funzionari, e anche qualcuno o qualcuna così influente da permettersi un lusso riservato a pochi, come l’acquisto di un oggetto raro, magari arrivato fin qui dall’Oriente attraverso il mare Mediterraneo, dopo aver fatto scalo nel grande porto di Ravenna.
Se la provenienza esatta del balsamario resta ignota, anche su ciò che conteneva si possono solo fare ipotesi. Lasciando andare la fantasia si può immaginare che provenisse da Alessandria d’Egitto e che al suo interno proteggesse l’aroma intenso del kyphi, un prodotto egiziano costosissimo, che secondo la ricetta tramandata da Plutarco era composto da ben sedici sostanze: miele, vino, uva passa, cipero, resina, mirra, legno di rosa, a cui si aggiungevano lentisco, bitume, giunco odoroso, pazienza, ginepro, cardamomo e calamo. Inalato di sera, si diceva avesse il potere di cullare fino al sonno, scacciando i cattivi pensieri e provocando sogni piacevoli.
Una cosa è certa: ritrovare all’interno di una tomba un oggetto così prezioso non accade di frequente. È vero che balsamari in vetro, ceramica o alabastro accompagnavano spesso il defunto nel suo viaggio ultraterreno, ma questo capolavoro dell’arte glittica aveva un pregio enormemente superiore, che piuttosto avrebbe indotto i proprietari a lasciarlo in eredità. Non sappiamo come mai, invece, fu deposto nella terra. Anche in questo caso possiamo solo immaginare: quanto doveva essere speciale la creatura a cui doveva restare unito, per sempre, un dono tanto unico?
Per saperne di più e progettare una visita al Museo civico di Belriguardo c’è PatER: il catalogo del patrimonio culturale dell’Emilia-Romagna.